A bordo della metropolitana, fiumi di persone impegnate a spendere la propria esistenza in attività prive di significato. Il lavoro li nobilita a tal punto da avere trasformato i loro volti in maschere tragiche, i loro occhi in orbite vuote. Non si tratta più di esseri umani, ma di frammenti. Svestiti i panni dell’impiegato a lavoro, subito dovranno rimetterli a casa. Il tempo libero che tanto avevano desiderato si rivela essere l’ora d’aria concessa ai carcerati. Domani sarà identico a ieri, un infinito numero di volte. Non ci rimane far altro che attendere la prossima crisi. D’altra parte, questo mondo è ormai bloccato. Non v’è più nessun orizzonte verso cui tendere la mano spinti dal desiderio. Sono tempi instabili i nostri. Ma cosa c’è di così instabile in un mondo che, catastrofe dopo catastrofe, offre sempre la stesse risposte, che ha fatto del grido di allarme la normalità?
Produci, consuma, crepa. Sento ancora la voce dell’amico che riflette sul ruolo degli artigiani, costruttori di sedie e tavoli, e mi domando: dove sono questi artigiani e i loro tavoli? Dove gli operai? Smantellate le fabbriche, tutto è diventato fabbrica. Non si producono beni di consumo, ma consumatori infelici, in un mondo in cui tutto è denaro perché niente ha più valore. Non sfugge a questa pena neppure il disoccupato. Escluso dalla partecipazione alla vita sociale, di lui non si sa niente, solo che è, per l’appunto, un disoccupato. Tutta l’esistenza si riduce a questo: essere occupati o disoccupati. Due facce della stessa medaglia che rivelano come nessuno sia veramente fuori, al di là del confine. Siamo tutti dentro, tutti inclusi, tutti occupati da…
La vita non è più un dono di Dio, ma una concessione da parte di autorità competenti, una pseudovita, possibile solo alle condizioni di qualcun altro. La fabbrica dell’insensato cancella, distrugge, sradica il rapporto con una dimensione interiore, a favore di una costante attenzione verso le lancette dell’orologio, il tempo come denaro. Ogni forma di vita interiore viene così abortita, poiché tutto ciò che non è quantificabile non può essere posseduto, né consumato. E noi, pur di rispondere al dominio della materia, siamo disposti a mettere un prezzo a tutto, a tracciare confini in territori sconfinati, a fare a pezzi la vita come macellai dietro al bancone.
Meglio l’asteroide all’ennesima giornata in ufficio, all’insensata catena di montaggio in cui è stata trasformata l’esistenza. Meglio i dinosauri, l’invasione aliena, il diluvio universale, l’universo risucchiato da un buco nero. Chi si accontenta di un mondo schiacciato sotto il peso monotono di attività intollerabili ha già smesso di vivere da tempo. E non è forse un caso se molti hanno accettato di buon grado le condizioni imposte nel 2020. Poteva essere quella l’occasione di mettere in discussione l’ordine conosciuto. Purtroppo, invece, la maggioranza ha deciso di abbracciare le soluzioni fornite prontamente dalle autorità, nel tentativo disperato di tornare all’interno delle vecchie gabbie, ridisegnate all’occorrenza per garantire una migliore efficienza del sistema di dominio.
L’insensatezza prodotta da questa pseudovita lascia il soggetto orfano di sé. Egli non può dire di avere veramente vissuto, di essere stato autentico, e finisce così col provare un forte sentimento di angoscia di fronte alla morte. Vorrebbe chiedere una proroga, un altro giorno, un’altra ora in risposta a tutto il tempo trascorso dormendo, assente poiché perennemente occupato. Egli è, in poche parole, uno schiavo che trova facile consolazione nelle promesse delle autorità terrene. La fame di significato generata dalla pseudovita diventa così la leva attraverso cui la classe dominante, sempre pronta a fornire soluzioni, esercita il proprio potere. Ogni soluzione fornita genererà ulteriore fame di significato.
La catastrofe diventa allora ciò in cui riporre le speranze, un evento che può configurarsi come l’espressione di desideri di diverso tipo.
- Desiderio di vendetta: “spero che i dinosauri ritornino e divorino tutta la classe dirigente del pianeta”.
- Desiderio di partecipazione: “ora mi metto bello comodo col fucile fuori dal balcone e sparo ai trasgressori in difesa del carcere che mi piace tanto”.
- Desiderio creativo: “posso finalmente costruire la mia vita momento per momento”.
Senza però scomodare comete o diluvi universali, basterebbe semplicemente tornare a riflettere sul significato della parola “crisi” e sulle opportunità che momenti del genere offrono alla creazione di nuovi percorsi, senza diventare prede della retorica ingannatrice a cui certi soggetti ci hanno abituati negli ultimi anni. Basterebbe, forse, essere pronti ad osare.
Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta” o “punto di svolta”, ora sta a significare: “Guidatore, dacci dentro!”. Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale […] Ma “crisi” non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero. (Ivan Illich, Disoccupazione Creativa)