Justified text.

La verità irraggiungibile

Come l'universo tecnico si frappone fra noi e la realtà

By Romeo Gand

La dirompente evoluzione tecnologica degli ultimi decenni ci sta portando a vivere in un regime di separazione dalla realtà ordinaria. Intendo con ciò che la percezione diretta e immediata dell’ambiente naturale nel quale l’essere umano si è mosso nel corso dei millenni - negli alterni tentativi di adattarvisi o di adattarselo - ci è ormai abitualmente preclusa. La nostra percezione del mondo appare sempre più mediata da un vasto complesso di tecniche, che si frappongono fra noi e la realtà come uno schermo, e dalle quali dipende oggi gran parte della nostra “esperienza” di ciò che accade.

Quid est veritas?

Ciò che accade, d’altra parte, accade realmente? Oltrepassato il recinto sempre più angusto di ciò che avviene davanti ai nostri occhi, ognuno dei fatti assunti come “dati del mondo” potrebbe non essere altro che un referto tecnico o un espediente narrativo. Nella società della post-verità, la differenza stessa fra reale e virtuale, fra originale e riproduzione, fra fatti e discorsi sembra decadere. Al giorno d’oggi, suoni e immagini potrebbero non soltanto essere manipolazioni della realtà, ma prodotti che - pur nella loro estrema verosimiglianza - non presentano più alcuna attinenza con quest’ultima: voci di nessuno, immagini di nulla. Ciò che percepisco, dunque, intrattiene ancora un qualche rapporto con la realtà? Di quali mezzi posso disporre per verificare che le mie esperienze quotidiane corrispondano a fatti e non ad artefatti? Gli oggetti stessi della mia esperienza non sono più gli oggetti del mondo, ma gli apparati tecnici che a tali oggetti dovrebbero riferirsi. Faccio esperienza di proiezioni e non di cose, di insiemi di dati e non di accadimenti. Così, volendo sapere quale ristorante sia meritevole di una sosta, controllerò in prima istanza le recensioni lasciate da una massa di utenti su un’applicazione, anziché farmi condurre dagli odori che sento per strada (in questo caso, il dato è affidabile in virtù di una mole di esperienze: la gaussiana ha sempre ragione). Esempi di questo tipo potrebbero moltiplicarsi indefinitamente, e riguardano qualunque ambito della nostra esistenza: volendo trovare un partner - e non soltanto per una notte di ardore - valuterò seriamente se affidarmi a un algoritmo per effettuare la “mia” scelta in tutta oggettività. Volendo sapere che tempo fa, non scosterò la tenda per vedere il cielo e le nuvole, non allungherò il braccio fuori dalla finestra per capire se sento caldo o freddo, ma mi affiderò a un dispositivo cui delegherò l’incombenza di “controllare il meteo”. Non si tratta in effetti, ad essere precisi, neanche più di verificare previsioni di cose, essendo la predizione tecnica giustificata dal fatto che essa vorrebbe sopperire, attraverso un’astrazione matematica, a una realtà futura non ancora esistente di cui non è possibile fare esperienza. Il mastodontico insieme di tecniche nel quale siamo costantemente immersi - che è per noi come un vero e proprio ambiente - ambisce invece a sostituire e a surrogare tutte le nostre esperienze possibili qui ed ora. Pochi esperti - tecnici qualificati - hanno già esperito tutto per tutti. Siamo come degli sprovveduti dunque, e proviamo un senso di sopraffazione, di ansia o di dipendenza dinanzi al complesso del sistema tecnico, assai prossimo forse a quello che qualche secolo or sono avrebbe potuto provare un contadino in propiziatoria attesa della mietitura. Non possiamo di conseguenza, in quanto società, che accrescere le tecniche e la loro diffusione nella paradossale speranza di poter meglio reggerne l’urto.

La prima e più eminente conseguenza di questa situazione è di ordine politico: il cittadino del XXI secolo non potrà opporre alcuna esperienza personale all’esercizio del potere (o per meglio dire: a quegli strati di potere che servono il sistema tecnico in posizione apicale). Non potrà contraddire il discorso degli esperti poiché sarà puntualmente accusato di mancare di quelle conoscenze specifiche che gli permettono di operare una valutazione della “realtà” che gli viene di volta in volta proposta (o somministrata, come già è d’uso dire). Ogni opinione, ogni scelta divergente, ogni dubbio diventerà così un atto di sacrilega impertinenza, di solipsistica presunzione, in quanto tutti gli aspetti della nostra esistenza sembrano essere determinati dal padroneggiamento di complicate competenze tecniche, acquisite con anni di studi specialistici.

Il cielo stellato sopra di noi

Ma torniamo al nostro vetusto contadino: adusto dal sole e precocemente ingobbito dall’esistenza, egli poteva tuttavia opporre una sua propria coscienza alle gabelle e ai soprusi dei potenti! In quanto immediatamente radicato in una realtà di cui conosceva i confini e le strutture a mena dito - dipendendo la sua sussistenza proprio dalla conoscenza di quest’ultima e non di una sovrastruttura tecnica - non lo si sarebbe potuto menare per il naso con quella la risibile facilità con cui le masse d’oggi sono sedotte e ingannate. Wat Tyler, misero servo della gleba, poté condurre con successo una folla di bifolchi rivoltosi dalle campagne sino al cospetto di re Riccardo II d’Inghilterra al fine di rivendicare condizioni di vita migliori per il popolo. Un evento che al giorno d’oggi, in un’epoca in cui la classe dominante si sposta imperscrutabile su jet privati da un capo all’altro del globo (al riparo non solo dalle mani del volgo, ma persino dalla sua immonda vista) sarebbe anche solo difficilmente immaginabile. Questo «iniquitous and devilish individual» - come ci tramanda una delle tante fonti coeve, a lui invariabilmente ostili - poté così seminare il panico nella rispettabile aristocrazia londinese anche se non in primo luogo in virtù del radicamento a quella zolletta di terra dalla quale proveniva, e di cui era un figlio ancor prima che uno schiavo.

Le tante rivolte politiche e sociali che sconvolsero l’Europa a partire dal tardo medioevo (oltre alle succitate scorribande di Tyler, le jacquerie in Francia e i Ciompi a Firenze) e per tutta l’età moderna (Müntzer, Masaniello, Pugacëv, ecc.) sembrarono presagire per l’umanità quel raggiante futuro di uguaglianza, ancora oggi tanto sbandierato, quell’inarrestabile processo di liberazione dei popoli dalla tirannia che si vorrebbe idealmente far culminare con lo scoppio della rivoluzione francese. Ma verso la fine del XVIII secolo, sarà piuttosto l’avvento della fabbrica e dei processi lavorativi ad essa connessi, a porre le condizioni per un mutamento radicale (in peggio) della coscienza delle masse.

Il marxismo e il socialismo, pur sviluppando una critica puntuale dei meccanismi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e denunciando l’iniqua ripartizione della società in classi di dominati e di dominanti, tralasceranno tuttavia di rimettere in discussione i presupposti esistenziali implicati dal sistema di produzione industriale. Risulta vano biasimare l’accumulo di ricchezza nelle mani dei padroni senza interrogarsi al contempo sulla natura intima del “profitto” generato da tale sistema: verso quali valori l’ambiente industriale indirizza l’uomo? Per rispondere a quali bisogni, e a quale costo? A causa della catena di montaggio - che non a caso farà proseliti sia ad Est che a Ovest, trovando emblemi in Henry Ford come in Alexei Stakhanov - l’operaio perderà in primo luogo la coscienza della realtà, di una realtà cioè che vada oltre la parcella minuscola che il suo compito sempre uguale e reiterato gli permette di intravedere. Prima ancora che dello sviluppo di una coscienza di classe, bisognerebbe allora parlare della perdita di una cognizione fenomenica, rimettendo in discussione l’apparato di produzione industriale in quanto tale, vero generatore di questo disorientamento esistenziale. Questo apparato inquina infatti la capacità da parte dell’operatore di approcciarsi al mondo esterno in maniera autonoma, e di pervenire alla risoluzione di quei problemi e di quegli imprevisti che la vita ordinariamente presenta fuori dalla gabbietta del posto assegnatogli. Si tratta di una deriva antropologica ineluttabile, connaturata al progresso tecnologico stesso; deriva di cui i padri fondatori del capitalismo liberale ebbero una cognizione più chiara - pur nel loro cinismo - di quanto non ebbero gli utopici rivoluzionari del secolo decimonono:

The man whose whole life is spent in performing a few simple operations, of which the effects are perhaps always the same, or very nearly the same, has no occasion to exert his understanding or to exercise his invention in finding out expedients for removing difficulties which never occur. He naturally loses, therefore, the habit of such exertion, and generally becomes as stupid and ignorant as it is possible for a human creature to become. The torpor of his mind renders him not only incapable of relishing or bearing a part in any rational conversation, but of conceiving any generous, noble, or tender sentiment, and consequently of forming any just judgment concerning many even of the ordinary duties of private life (Adam Smith, An Enquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776).

Se ogni abilità propriamente umana pare irrimediabilmente compromessa dall’espansione del sistema tecnico-industriale, come potrà un soggetto sprofondato nel torpore esistenziale riconoscere il tallone che lo schiaccia, quando avrà persino perduto la cognizione di chi è e di dove si trova? Si potrebbe obiettare che la situazione qui descritta da Smith possa confarsi alle fabbriche sporche e atroci della Londra vittoriana, alle miniere di carbone dei secoli passati - insomma a tutti quei poveracci che se ne stavano avvinghiati agli ingranaggi e ai pistoni - e che non si possa a ragione estendere all’evoluto impiegato, all’amministratore, al manager del secolo nostro. Ebbene, una visione così triviale e limitata della nozione di fabbrica è falsa e fuorviante. Oggi la condizione dell’operaio si può a rigore applicare a qualunque ambito, poiché il mondo stesso ha preso a funzionare come una grande industria, in cui tutti i processi lavorativi tendono all’automazione e alla massima efficienza produttiva. In cui il lavoro del singolo non occupa che una porzione infinitesima di un’immensa catena che gli impedisce di scorgere il senso generale delle attività che svolge (ammesso che un tale senso ancora sussista):

L’operaio lavora in un ‘collettivo’ di macchine; l’universo della macchina lo circonda da ogni parte e costituisce realmente il suo ambiente. Tale condizione operaia, ben nota, è tuttavia semplicemente tipica; in realtà è la condizione di tutti noi, almeno nel mondo urbano.” (J. Ellul, Tecnica, Enciclopedia del Novecento Treccani).

Se dunque l’unica realtà con cui posso sviluppare una certa familiarità è quella dell’insieme dei processi tecnici, come potrò sperare di comprendere o criticare, obiettare, modulare i discorsi e le immagini che mi vengono quotidianamente calati dall’alto del deus ex machina? Un’opposizione alla retorica precostituita, dunque, non potrà che arrivare da quegli strati di popolazione che si trovano ai margini della civiltà tecnologica (sempre ammesso che esistano ormai segmenti di popolazione di questo tipo). Viceversa, più un soggetto risulterà incorporato all’interno dell’apparato tecnocratico, più sarà compromessa la sua capacità di reagire ai discorsi imposti. Tanto più si troverà ai vertici di questo sistema, tanto più il parere degli altri esperti costituirà ai suoi occhi una verità incontestabile e inattaccabile: come un uccellino nel nido, attenderà con ansia il momento in cui gli saranno imbeccate realtà premasticate. La sua stessa sopravvivenza dipenderà integralmente dalla sussistenza di questo grande ingranaggio, e dai dogmi che esso di volta in volta gli richiederà di accettare. Così, criticare il discorso dominante equivarrà per lui non soltanto a mettere a repentaglio una posizione di vantaggio all’interno di una gerarchia in cui gli sono riconosciuti certi privilegi, come un status sociale ed economico di rilievo, ma addirittura a minacciare la sua stessa possibilità di sopravvivere. In altre parole, egli non si conformerà esclusivamente per soddisfare una smania di grandezza, ma per l’incapacità di concepire qualsivolgia realtà alternativa a quella che gli viene sottoposta. All’infuori di questa, vi è il terrore che un caos distruttore possa prendere il sopravvento sulla vita.

Il tetto e il velo

La nozione di schermo ci rimanda a una duplice valenza: quella della protezione da un lato, quella della cecità e dell’illusione dall’altro. La tecnica ci protegge da un ambiente ostile, mitigandone le asperità attraverso la produzione di condizioni di vita più agevoli; nel fare questo, tuttavia, essa frappone uno strato fra l’ambiente e l’essere umano, rendendo quest’ultimo progressivamente più dipendente dagli strumenti tecnici, in ragione che questi acquisiscono una posizione preponderante nella sua esistenza. Lo strato ci tutela ma ci toglie sensibilità. Da un lato dunque la tecnica abilita l’uomo, cioè comporta per lui dei vantaggi funzionali (reali o presunti); dall’altro, essa disabilita l’uomo, disattivando in lui la capacità di provvedere alle sue esigenze tramite i suoi mezzi biologici innati. Dovunque prolifera la tecnica, si degrada in varia misura la natura: la stampella ci fa avanzare sostituendo l’uso degli arti, l’automobile sposta i corpi immobilizzandoli.

Ora, è stato detto che l’uomo è un animale “aperto al mondo”: egli nasce sprovvisto, a differenza degli altri animali, di un insieme di abilità biologicamente determinate che gli garantiscano di provvedere alle sfide che il suo ambiente gli pone. Difettando di una natura precisa, sarà costretto a inventarsi di volta in volta gli accorgimenti più appropriati ai suoi bisogni: il suo adattamento biologico risiede nella metacapacità di produrre tecniche sempre nuove per plasmare il suo ambiente. È tuttavia necessario ricordare che oggi questo mondo rispetto al quale egli è chiamato ad “aprirsi” altro non è che l’universo stesso delle tecniche da lui accumulate. L’assurdità della nostra condizione deriva allora non dalla nostra natura di homines fabri, quanto dal fatto che la tecnica rappresenta al contempo la caratteristica selezionata e l’ambiente selezionante: essa serve a far fronte a sé stessa, in una regressione all’infinito in cui viene a mancare qualsiasi effettiva teleonomia dell’agire. Ci troviamo nel mezzo di un vortice di accrescimento inarrestabile, in cui lo spirito di potenza che alimenta il progresso serve ormai a produrre quei mezzi atti a non soccombere dinanzi a un ambiente tecnico sempre più ostile, incomprensibile, invivibile. Inumano.

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