Il sesso è uno spettro?
Stando a sentire la vulgata costruttivista, parrebbe proprio di sì: girovagando per il web mi sono imbattuto in questo interessante articolo, in cui l’autore – un biologo, blogger ed “imprenditore LGBTQ+” – sostiene appunto che non soltanto il genere, ma persino il sesso biologico umano non sia riducibile alla dicotomia maschile/femminile, ovvero a due categorie rigidamente distinte e mutualmente esclusive (teoria cosiddetta del binarismo di genere); esso corrisponderebbe piuttosto ad uno spettro, cioè ad un continuum nel quale è unicamente possibile rintracciare due picchi o modi statistici (teoria cosiddetta bimodale).
Quest’ultima rappresenta uno degli ultimi ritrovati concettuali del femminismo post-strutturalista (o post-moderno, o post-femminismo, o come cavolo volete chiamarlo): ne presento qui una critica, in quanto mi pare che essa riassuma le tante fallacie di un costruttivismo 1 che, a furia di scorgere convenzioni socio-culturali dappertutto, sta finendo per distruggere quelle distinzioni primarie su cui i pensieri (e le identità) dovrebbero necessariamente fondarsi, imponendo al contempo (all’occorrenza con la violenza di una disciplina foucaultiana) il proprio punto di vista come l’unico possibile.
Indice
- La verità è morta, viva la verità!
- Lo spettro sessuale
- Il normale e il patologico
- L’individuo non basta…
- Rosso Malpelo e i ciclopi
- La salute ammalata, la malattia sanata
- La volontà fa la giraffa
- E i cavallucci marini allora?
- Sia la luce…
- Dallo spettro ai fantasmi
La verità è morta, viva la verità!
Si è detto che l’autore “sostiene un’ipotesi”. Più precisamente si dovrebbe dire che egli cerca di “divulgare una verità”, umilmente insegnandoci (parole testuali) 2:
…what your parents and teachers should’ve taught you, but didn’t know themselves.
Le due teorie concorrenti non sono dunque gradualmente introdotte al lettore ma, sin da subito, vengono presentate l’una nei termini di un understanding della realtà 3 (teoria bimodale), l’altra in quelli di un (falso) belief (teoria binaria). Il tutto è graficamente chiarito con due bei diagrammi, di seguito riprodotti, riportanti rispettivamente la dicitura “corretto” e “scorretto” a scanso di ogni eventuale equivoco:
A dispetto del titolo però, l’apologo della nuova scientia sexualis non si impegna più di tanto nel dimostrare l’esistenza di uno spettro di genere, ma liquida la questione 4 come un’autoevidenza:
Because gender is a personal identity, is socially constructed, and has limitless possibilities, it takes no further explanation to explain why it is a spectrum. Therefore, when people question the existence of a gender spectrum, what they are usually questioning is the existence of a sex spectrum.
Senza frapporre ulteriori indugi, né aspettare la comanda, ci serve dunque il piatto del giorno: stufato costruttivista in salsa biologica. La ricetta? Una dimostrazione more geometrico, sulla scia di Donna Haraway e Judith Butler 5, di come finanche il sesso non sia che un continuum, nel quale non è possibile rintracciare alcuna distinzione oggettiva, ma unicamente due modi statistici culturalmente connotati. In questo post ho deciso di adattare interamente il palato ai gusti dell’oste, focalizzandomi esclusivamente sulla critica di questo presunto spettro sessuale: affronterò la questione dello spettro di genere propriamente detto in separata sede…nel caso dovessi avere ancora un po’ di spazio per il dessert.
Lo spettro sessuale
L’idea principale della teoria bimodale è che l’intera sessualità non possa suddividersi in due categorie opposte e discrete, in quanto l’esperienza ci mostra che esistono individui in cui i caratteri sessuali maschili o femminili si presentano in forme per così dire sovrapposte, cioè in delle combinazioni che non rispondono ai canoni standard della maschilità o della femminilità. Secondo le parole dell’autore:
Sex is not binary, because people cannot be grouped into two separate, non-overlapping groups.
Ne conseguirebbe che:
- Il sesso maschile e quello femminile in quanto concetti sono privi di qualunque consistenza ontologica, poiché ciò che è riscontrabile nella realtà è solo un insieme di caratteristiche infinitamente variabili e ricomponibili che, nelle loro configurazioni statisticamente più diffuse, danno luogo a ciò che noi impropriamente definiamo “maschio” e “femmina”. Le virgolette qui rimandano all’illusorietà di tali etichette, esclusivamente frutto di convenzioni (leggasi: oppressioni) culturali.
- Non ci sarebbe alcun modo di oggettivare una definizione del maschile o del femminile, nemmeno nella loro accezione strettamente biologica, in quanto esse sarebbero semplici astrazioni nominali sprovviste di qualsiasi riscontro fattuale.
- Non sussistendo più alcuna distinzione sessuale di tipo categoriale, né sul piano culturale né su quello biologico, qualsiasi corpo può essere identificato con qualunque genere. Questo avviene non tanto poiché è negata la necessità di un allineamento fra sesso e genere “corrispondente” – come talora si dice – quanto perché, ancora più radicalmente, la differenza stessa fra i “sessi naturali” è stata decostruita: in uno spettro continuo, ogni nesso anche chiasmatico fra sesso e genere diviene immaginabile.
La teoria bimodale rappresenta dunque una forma estrema di nominalismo, in cui gli universali maschio e femmina sono ridotti al rango di mere sententia vocum: parole vane. Chiunque vi faccia riferimento dovrebbe, è proprio il caso di dire, evitare di dar fiato alla bocca…sentenza che l’autore ci spiattella in faccia con la consueta modestia:
What is true is that sex characteristics tend to be bimodal, meaning there are clusters of characteristics that tend to be associated with people that we call “female” or “male.” 6
Dopo questo esordio spumeggiante le piccozze (de)costruttiviste vengono però momentaneamente deposte in cantiere: giusto il tempo di poter affermare tale modello come verità ultima e irrevocabile. È infatti la Scienza, paradosso dei paradossi, a proclamare in tutta obiettività che ogni cosa è soggettiva, ungendo dei suoi crismi assoluti il relativismo culturale:
Today, numerous scientific fields, including biology, endocrinology, physiology, genetics, neuroscience, and reproductive science, have confirmed that both sex and gender exist as a spectrum.
Il normale e il patologico
Tutto finirebbe qua, se avessimo la decenza di inchinarci a tanta profusione di sapere. Ma intuendo la nostra natura di scettici peccatori, l’autore insiste, presentandoci retroattivamente qualche osservazione in favore del dogma fluidificante. Il primo argomento – per meglio dire constatazione – che viene tirato in ballo per sostenere la fondatezza della teoria bimodale è proprio quello dell’esistenza nella popolazione umana di persone intersessuali, che non è cioè possibile classificare né come appartenenti al sesso maschile né come appartenenti al sesso femminile.
Così, se in un primo momento si è implicitamente provveduto a negare che dalla distribuzione statisticamente normale dei caratteri sessuali si possa inferire l’esistenza di due sessi binari, poco dopo ci si affretta ad affermare che la percentuale di persone che presentano caratteri intersessuali sarebbe pari a ben l’1,7% della popolazione 7, precisando altresì – come a enfatizzarne la consistenza numerica e dunque la normalità – che l’intersessualità è nell’essere umano una condizione “about as common as having red hair”.
Ora, non so se tali divulgatori – sommersi come sono dal peso di tutta questa Scienza – possano reggere sulle spalle anche il fardello di un po’ di filosofia. Penso però che un tale gravame gli riuscirebbe in qualche modo utile, considerato che il problema che qui si pone è proprio quello, magistralmente affrontato da Georges Canguilhem alla metà del XX secolo, del rapporto fra due differenti tipi di norme: la normalità statistica da un lato, la quale si limita a descrivere la distribuzione quantitativa di un carattere all’interno di una popolazione, e la normalità che potremmo definire valoriale o funzionale dall’altro, la quale invece cerca appunto di valutare la qualità di questo carattere nei termini di un vantaggio o uno svantaggio (biologico in questo caso).
E se è innegabile che la normalità statistica di un carattere non costituisce di per sé – come un tempo si era inclini a ritenere – un criterio valido per discriminare ciò che è patologico da ciò che è fisiologico, è al contempo vero che nessuna eccezione a tale norma (anomalia), non importa quanto numericamente prevalente, non può certo rivendicare la sua parte di funzionalità per il semplice fatto di esser ricompresa nel novero delle tante cose bizzarre che accadono in natura. E questo proprio perché la normalità statistica rappresenta un criterio del tutto distinto rispetto alla normalità funzionale. È allora nei singoli viventi che un tale fondamento valoriale dovrebbe essere ricercato. Secondo lo stesso Canguilhem:
En distinguant anomalie et état pathologique, variété biologique et valeur vitale négative, on a en somme délégué au vivant lui-même, considéré dans sa polarité dynamique, le soin de distinguer où commence la maladie. C’est-à-dire dire qu’en matière de normes biologiques c’est toujours à l’individu qu’il faut se référer […] 8
L’individuo non basta…
Attenzione però a non scambiare questa “licenza di discernere” il fisiologico dal patologico, attribuita all’individuo, per una sorta di relativismo in cui ogni differenza qualitativa si possa risolvere nel giudizio operato del singolo. Sarebbe questo un solipsismo esistenziale tanto ingenuo quanto estraneo al pensiero del filosofo: infatti, negare che la normalità statistica di un carattere sia sufficiente a convalidarne il valore biologico non equivale in alcun modo a sostenere che questa valutazione di vivibilità sia rimessa al capriccio dell’individuo (come molti paiono oggi fare). Al contrario: è sempre un rapporto, quello fra il singolo e l’ambiente – nella sua reciprocità ma anche nella sua ineluttabile oggettività – a discriminare i caratteri che coadiuvano la vita da quelli che l’affossano. E d’altra parte, basterebbe proseguire nella lettura del celebre passaggio, così spesso troncato dai collezionisti d’aforismi, per constatare che quell’individuo è sempre considerato nel contesto dei limiti su di lui imposti dall’ambiente:
…parce que tel individu peut se trouver, comme dit Goldstein, « à la hauteur des devoirs qui résultent du milieu qui lui est propre », dans des conditions organiques qui seraient inadéquates à ces devoirs chez tel autre individu. 9
Eccola là, l’oggettività che gli ultracostruttivisti rifuggono, come il diavolo l’acquasanta: l’individuo potrà essere all’altezza di quei doveri che il suo ambiente ineludibilmente gli imporrà di soddisfare? Se ci riuscirà, gli sarà concesso di farlo anche “a modo suo”.
Per smantellare il decostruttivismo biologico non è dunque necessario – punto importante – ricorrere a una metafisica fissa e immutabile:
- Né di tipo platonico (gli archetipi ideali predisposti dal demiurgo, cui i singoli enti sensibili partecipano)
- Né di tipo creazionista, in cui le diverse sostanze risultano direttamente dall’azione della volontà divina (“Dio creò […] secondo la loro specie”; “maschio e femmina li creò”), e sono da essa orientate a un ruolo/scopo specifico.
Nella teoria presentata, la normalità è invece inferita unicamente da osservazioni circa la capacità dei singoli viventi di rispondere alle sfide poste loro dall’ambiente, in maniera perfettamente compatibile con l’evoluzionismo darwiniano 10: se un carattere emerso casualmente o fino ad allora insolito si rivelerà improvvisamente vantaggioso, ciò implicherà come conseguenza un’alta probabilità della sua trasmissione intergenerazionale 11. La progressiva diffusione all’interno della popolazione lo renderà a sua volta anche quello statisticamente normale.
Nessuno potrebbe mai negare che la vita vada avanti grazie (e nonostante) la comparsa di imprevisti: sono proprio questi ultimi a permettere alle specie, sul lungo periodo, di adattarsi alle sempre mutevoli condizioni ambientali. Senza l’imprevisto, sarebbe in effetti inibita la possibilità di ogni cambiamento benefico: in biologia, l’esempio più noto di questo principio evolutivo è senza dubbio rappresentato dalle falene delle betulle (Biston betularia), le quali – fino al XVIII secolo normalmente di colore chiaro – divennero progressivamente scure con l’avvento della rivoluzione industriale. Questo mutamento fu causato dall’annerimento della corteccia degli alberi da cui queste falene traggono il nome, a sua volta determinato dall’immissione in atmosfera degli scarti della lavorazione del carbone, la quale favorì le capacità mimetiche di quei pochi esemplari che presentavano una livrea melaninica, provocando così la progressiva diffusione di tale colorazione.
Tuttavia, gli imprevisti funzionali non sono certo la maggior parte, e per ogni feconda serendipità, esistono miriadi di errori esiziali: potrebbe forse un orso polare seguire le orme della falena senza andare incontro a morte certa?
Rosso Malpelo e i ciclopi
Poste queste premesse concettuali, torniamo al tema: affermare che i caratteri sessuali possano talvolta presentarsi in natura in configurazioni insolite non dimostra in alcun modo che i sessi umani “normali” coincidano essi stessi con un unico continuum, all’interno del quale ogni graduale differenza non dovrebbe essere repressa (da chi poi?), ma anzi accolta con entusiasmo. E di fatti basterebbe fare qualche rapida ricerca per scoprire che quell’1,7 % di popolazione che ci viene presentata come “intersessuale” 12 è in realtà quasi esclusivamente composta da soggetti affetti da aberrazioni del corredo cromosomico, e che adottando una corretta definizione di intersessualità, tale percentuale dovrebbe essere ribassata di ben due ordini di grandezza, portandola a circa lo 0,018% della popolazione generale 13.
Questa definizione “allargata” dell’intersessualità è impropria in quanto ricomprende quelle sindromi genetiche in cui è presente un’alterazione cariotipica dei cromosomi sessuali maschili o femminili: le più comuni 14 di queste condizioni sono senza dubbio la sindrome di Klinefelter (47, XXY), che colpisce individui di sesso maschile con un X soprannumerario, e la sindrome di Turner (45, X), che colpisce soggetti di sesso femminile con un X mancante: in entrambe, i soggetti affetti presentano caratteri sessuali e riproduttivi alterati ma fenotipicamente corrispondenti al sesso cromosomico. Non è dunque possibile parlare di intersessualità stricto sensu in questi casi.
Se queste condizioni non possono essere rubricate come intersessuali, esse vanno però chiamate per ciò che sono, ovvero malattie: più che “intersessuali sani”, le persone che ne sono colpite dovrebbero essere considerate a tutti gli effetti donne e uomini malati. Esse implicano innumerevoli e seri problemi di salute che non si limitano affatto alla particolarità dei caratteri sessuali primari e secondari 15 o all’infertilità 16, ma ricomprendono altresì: difetti cardiaci congeniti, tendenza a sviluppare obesità, diabete e altri disordini ormonali come l’ipotiroidismo, osteoporosi e (più raramente) ritardo mentale o altre problematiche cognitive. Insomma: proprio un bel pennone su cui innalzare la bandiera del progresso. Far passare queste condizioni per semplici “variazioni dello spettro sessuale” sarebbe in primis una mancanza di rispetto nei confronti di coloro che ne sono affetti, ma mi rendo conto che nel secolo presente una frase del genere suoni nient’affatto inclusiva.
Ai paladini della diversità naturale domanderei: se già variazioni all’apparenza banali come il rutilismo 17 possono comportare alcune differenze in termini di adattamento o disadattamento biologico all’ambiente, come si potrebbe mai ritenere la variabilità relativa al colore della pelle, degli occhi o dei capelli, come qualitativamente equivalente alle condizioni sopracitate, le quali implicano per i soggetti che ne sono affetti serissime ed evidenti compromissioni biologiche?
D’altro canto, la musica non cambierebbe neanche volendo restringere l’intensione dell’intersessualità (e di conseguenza la sua estensione) all’effettiva discrepanza fra fenotipo e genotipo 18: questo sia perché le persone che sono affette da tali condizioni presentano anch’esse problematiche di salute che trascendono la peculiare conformazione dei caratteri sessuali, sia perché – tenuto conto delle premesse – è l’intersessualità in quanto tale a compromettere le normali funzionalità biologiche dell’essere umano, prima fra tutte la capacità di riprodursi.
Basterebbe poi estendere l’argomento bimodale a qualsiasi altro carattere biologico per ottenere una reductio ad absurdum da sbellicarsi: potremmo ad esempio affermare che anche il numero di teste in un corpo o di occhi in una testa non sia oggettivamente determinabile, ma coincida piuttosto con uno spettro di possibilità, posto che anche questo accade in natura. Insomma, finiremmo per questa strada col fare dell’uomo un cerbero o un ciclope! Come si potrebbe allora non ridere di questi maître-à-penser che, per aver trovato negli interstizi che separano una norma dall’altra un diverso tipo di natura (e non il vuoto come forse s’immaginavano), ritengono di aver scoperto l’America?
La salute ammalata, la malattia sanata
Rimarcava con acume quasi profetico Michel de Montaigne (Essais, II, 37) come i medici:
[…] ne se contentent point d’avoir la maladie en gouvernement, ils rendent la santé malade pour garder qu’on ne puisse en aucune saison échapper leur autorité
Come non ravvisare il pallore di questa salute ammalata in una società come la nostra che – negando al vivente ogni propensione intrinseca all’esistenza – sta finendo col ridurre la salute a una specie di riparazione tecnica, rendendo la vita costantemente dipendente dall’intervento di qualcuno o di qualcosa? Abbiamo già accettato di vivere, pur da sani, come se fossimo ammalati (screening, vaccinazioni periodiche, astensione precauzionale dall’esistere)…eppure mi sembra che un simile movimento tettonico non possa sussistere che con una (non meno deleteria) transizione complementare: laddove la salute vien costretta al capezzale, marcia senza sosta una malattia sempre più volentieri descritta nei termini del suo opposto. La malattia guarita diviene così “una varietà come un’altra”, in un’ebete esaltazione della diversità:
[…] because after all, natural variation has caused the rise of our species to 7.8 billion strong!
I tanti atteggiamenti “inclusivi” nei confronti degli ammalati e degli invalidi tradiscono come la malattia sia – in quanto tale – una condizione ancora connotata moralmente (anche se su basi diverse rispetto al passato) e che dare del malato equivalga a tutti gli effetti ad offendere. Si cerca allora di separare l’infermo dalla sua infermità (persona con disabilità), come se questa non fosse un suo stato ma una specie di patata bollente che non gli si vuol spiccicare di dosso, di non nominarlo per ciò che è (diversamente abile), o ancor più radicalmente di escludere la sua condizione – in un immane sforzo sofistico – dal novero degli stati patologici, al fine di salvarlo dallo stigma sociale che una malattia implicherebbe. Ma più che proscrivere la malattia come un tabù, diluendola nell’oceano della variazione naturale, non sarebbe il caso di tornare a renderla una condizione onorevole?
La volontà fa la giraffa
La carrellata del nostro eroe prosegue passando progressivamente dalla cintola alla testa. Si precisa così che la determinazione del sesso non può essere compiuta osservando il solo “contenuto dei pantaloni”, ma che richieda di prendere in considerazione molti e più vari fattori quali ad esempio – oltre ai cromosomi e agli ormoni – le struttura scheletrica e celebrale della persona. Stando a sentire il nostro blogger, poi, la combinazione di tutti questi caratteri nelle forme tipiche che noi chiamiamo maschili e femminili, sarebbe un evento “imbrogliatissimo e pieno di sottigliezza metafisica”: una specie di congiunzione astrale 19.
Il giochino è dunque doppio, e consiste da un lato nell’allargare il più possibile la definizione dell’intersessualità (come abbiamo visto), e dall’altra nel restringere contestualmente la definizione del maschile e del femminile, fino a farla coincidere con le caratteristiche delle sole persone che si trovano all’apice delle due gaussiane.
Per corroborare questa tesi, viene tirato in causa uno “studio affascinante”, grazie al quale sarebbe stato finalmente evidenziato che:
Brain activity and structure in transgender adolescents more closely resembles the typical activation patterns of their desired gender.
Quel “desidered gender” attira parecchio la mia attenzione, ma il nostro idraulogo ce la vuole far semplice e, sapendoci inclini al peccato d’opinione, subito glossa:
Put simply, transgender kids’ brains resemble their gender identity and not their biological sex.
Date le premesse destrutturanti, non è dato sapere come il cervello, che è una struttura anatomica, possa rassomigliare a un’identità di genere, che è invece un costrutto sociale. Figurarsi poi ancora come si potrebbe sostenere che esistano delle differenze strutturali oggettivabili fra cervelli (e menti) di genere maschile e cervelli (e menti) di genere femminile, senza ricorrere a quella metafisica del sesso (e del genere) che si è inizialmente ricusata come illusoria. Misteri della fede.
Potremmo cercare di spiegarci la cosa in questi termini: la disforia di genere sarebbe causata da un corpo che non sa se seguire il contenuto dei propri pantaloni o la struttura anatomica del proprio cervello. La volontà di transitare da un genere all’altro si spiegherebbe allora in ragione del fatto che la mente tenta di accordare la propria identità culturale (genere) alla propria natura sessuale “profonda”. Questa spiegazione però reintrodurrebbe l’idea di un allineamento fra sesso e genere, poiché la transizione di genere consisterebbe a tutti gli effetti in un processo di riarmonizzazione della persona con la sua natura profonda.
Subito dopo, però, si provvede a distinguere la nozione di cervello da quella di mente, precisando che anche:
The mind plays a central role in your gender identity
E allora, unendo tutti i puntini, mi chiedo: non è che quel si sta affermando qui è che i desideri della tua mente siano così potenti da riuscire non soltanto a determinare il tuo genere, ma persino a plasmare il tuo corpo? Allora, il desiderio di cambiare identità non sarebbe più l’effetto di una natura che vuol esser liberata, ma la causa stessa di questo mutamento
In parole povere, coloro che tacciano ogni critico della fluidità di bigottismo e di anti-darwinismo, sembrano muoversi ancora come le giraffe di Lamarck: l’umano totipotente del XXI secolo s’è convinto di potersi stiracchiare fino al punto di allungarsi il collo (mutatis mutandis…) per il solo sforzo supremo della sua volontà.
O beh sì, insomma…magari con qualche aiutino farmacologico qua e là…qualche taglia e cuci, non bisogna essere pignoli, rigidi. Medioevali. Ogni intervento (medico) si giustifica per via dall’alto valore morale insito in questo sforzo evolutivo.
E i cavallucci marini allora?
Terminata la rassegna delle malattie genetiche, si passa infine a snidare gli animali. Nessuna bestia del mare e della terra, strisciante o guizzante, è esclusa: persino gli alberi possono finire nella faretra dell’ideologia fluidificante.
Eppure, è degradante dover osservare che il modo in cui funzionano altri esseri viventi non è necessariamente utile a spiegare come funziona o dovrebbe funzionare l’essere umano: posso dedurre di poter spiccare il volo dal fatto che il piccione o la farfalla hanno le ali?
Quale luce getta sulla natura dell’essere umano il pesce pagliaccio, il quale nasce come maschio per poi divenire femmina? A che giova rimarcare quanto è progredito il cavalluccio marino, in cui è insolitamente il maschio a portare avanti la gestazione 20 ? Per questi animali, tali strategie si sono rivelate vincenti rispetto alle sfide poste dal loro ambiente naturale. Non così per l’essere umano, per il quale – fino a stratagemma tecnologicamente contrario – l’esperienza di una gravidanza maschile sarebbe un’esperienza alquanto…esiziale.
L’analogia fra gli animali e gli umani è feconda, cioè produttrice di spiegazioni, unicamente quando è possibile stabilire un certo grado di conformità funzionale fra i termini analogici. In pochi sanno, ad esempio, che fino a non molto tempo fa l’essere umano ha creduto che la capacità riproduttiva promanasse da una sorta di potere mistico della donna 21 e non dall’incontro dei due sessi (il che spiega forse il proliferare del culto delle veneri preistoriche). Il significato procreativo dell’unione sessuale fu inferito proprio osservando il comportamento degli animali, e questo soprattutto grazie all’avvento dell’allevamento, che poteva permetterne un’osservazione più sistematica e circoscritta. Ogni qual volta un toro o uno stallone vengono rimossi dal recinto, una mucca o una cavalla non sono in grado di rimanere incinta: ecco una constatazione da cui si possa inferire un utile insegnamento circa il funzionamento dell’umano.
Viceversa, estendere il principio analogico senza sottoporlo ad una valutazione critica dei suoi limiti, ci porterebbe a concludere che anche per via di questo batterio che ora vedo scindersi al microscopio si possa dedurre che l’essere umano possa talvolta nascere, alla maniera di Atena, dalla testa di suo padre.
Sia la luce…
Inutile girarci attorno: il modello che oggi si cerca di affermare è quello secondo il quale ognuno può e ha il diritto di essere ciò che vuole. In una fusione di ontologia e volontà di biblica memoria, come una divinità creatrice l’individuo si è messo a separare le acque e i cieli col discernimento della propria parola, fino al punto da annichilire ogni distinzione che osi precedere le determinazioni della sua volizione.
La riassegnazione chirurgica del sesso, operata arbitrariamente alla nascita nei casi di genitali ambigui, tanto osteggiata (con profili di ragione) da questi critici a intermittenza della scienza medica come esempio di violenza sui corpi, è del tutto analoga ai cambiamenti di sesso farmacologicamente indotti sin dalla più tenera età, decantati invece come progresso morale, e incoraggiati in bambini che a stento dovrebbero scegliere nemmeno come vestirsi – figuriamoci poi cosa dovrebbero essere. Entrambe sono forme di medicalizzazione, seppur operate a partire da diversi presupposti circa la natura e la portata della “scelta” individuale.
Ma criticare la sessualizzazione chirurgica di quei corpi che naturalmente si presentano con caratteri sessuali ambigui – scegliendo arbitrariamente se ricondurli e verso quale dei due poli ricondurli – non equivale in alcun modo a sostenere che ogni corpo sia sistematicamente sessualizzato dalla società, ovvero che i sessi biologici stessi siano esclusivamente o principalmente il frutto di un’oppressiva costruzione culturale, priva di riscontro fattuale
Il punto critico della modernità risiede proprio nel pensare che ogni evidenza oggettiva sia modificabile a volontà per rimediare alle oppressioni di una società retrograda. La sovranità sul corpo, abbandonata e ripudiata in tutti quei contesti dove rappresenterebbe un baluardo contro disegni egemonici, viene invece recuperata con enfasi per solleticare le smanie di potere di un individuo talmente acciecato da sé stesso da non riconoscersi più nemmeno davanti a uno specchio. Non più “io sono mia” ma “io sono ciò tutto ciò che dico di essere”, in un passaggio da una sovranità illuminata ad una schizofrenica tirannide della volontà. Perché la nostra sovranità sul corpo non promana forse in prima istanza proprio da quel corpo su cui vogliamo esercitare il nostro imperio? La sovranità appartiene prima di tutto al corpo: è sovranità del corpo e non sovranità sul corpo. Questi corpi di cui si vuol fare tabula rasa: ognuno uguale all’altro nella sua indeterminatezza originaria. Questi corpi su cui si vuole incidere qualunque segno e che, ribellandosi alle nostre fantasie, vengono presi a frustate: come l’Ellesponto essi osano separare ciò che noi vorremo unire.
Dallo spettro ai fantasmi
Spettro è, indubbiamente, una parola interessante: dal latino spectrum, derivato a sua volta da specĕre, «guardare», esso designa originariamente la visione, il simulacro, il fantasma. A partire dalla fine del 1600 circa, il termine venne impiegato in ottica con un’inedita accezione per indicare la figura luminosa a forma di striscia, composta dalla successione dei colori dell’iride, ottenuta per dispersione prismatica del fascio di luce solare. Lasciata la nebulosa dei miraggi per approdare alla concretezza della scienza, il nostro spettro pare aver avviato da allora una carriera di successo, colonizzando tanti altri campi del sapere: oltre alla fisica, la chimica, la geologia, l’ingegneria, la matematica, l’astronomia, la medicina e altri ancora. È forse un caso che il simbolo del movimento LGBTQ+ sia proprio un raggiante arcobaleno 22? Anch’esso, inclusivo di tutte le sfumature, tradisce le aspirazioni scientifiche del nostro spettro.
Chissà però che tutti questi sforzi per abbattere le etichette del passato 23, volti a costruire uno spazio continuo in cui ognuno possa sentirsi sé stesso in modo unico, non finiscano invece per distruggere quel soggetto che vorrebbero esaltare. Chissà se quest’ultimo, vedendo in ogni identità l’ombra minacciosa di una gabbia, l’infingimento di un costrutto sociale della sua natura oppressore, possa serbare ancora una vaga idea di chi sia.
E già, perché bisogna ricordare che il sesso – dal latino sexus a sua volta derivato dalla radice protoindoeuropea sek, “tagliare, separare” 24 – vorrebbe rimandare proprio a quell’attributo che oggi gli viene sottratto: la distinzione, e non certo la continuità! Separazione che, frammentata in minuscole parcelle, finisce oggi per generare un guazzabuglio omologante più simile a un frullato che non a un luminoso arcobaleno. Il disco di Newton ha preso a girare così vorticosamente, che da fuori – nonostante le mille bandierine a strisce colorate – adesso ogni identità appare di un bianco candido. Più che un’infinita varietà, l’umano ha preso il carattere di essere indefinito, sgargiante al punto da essere divenuto incolore, e non saprebbe più dire – tutto pronto com’è a transumanare in questa palestra dell’oltreuomo che è la fluidità di genere 25 – non solo a quale genere appartenga, ma persino a quale specie.
E forse, è proprio in questo vuoto d’identità che l’oppressione dei potenti si esercita sui corpi e sulle menti…
D’altra parte, mi chiedo da quanto tempo non leggano un certo manifesto, questi don Chisciotte del patriarcato eteronormativo: se fossero veramente coerenti con la tradizione intellettuale da cui provengono, come potrebbero non scorgere in queste dottrine quell’eterna incertezza 26, quella crisi sistematicamente prodotta e poi sfruttata dalla classe dominante per mantenere intatti i divari di forza (ed anzi approfondirli)? Essa si ottiene oggi più che mai attraverso il controllo dei mezzi di produzione spirituale: non nell’officina, ma con la fabbrica di una Scienza che vuol spogliarci di ciò che siamo.
Il precariato di questo secolo è allora anzitutto il precariato delle identità: esse dovranno essere quanto più possibili instabili, fugaci, fragili, inconsistenti, affinché “tutto ciò che sta in piedi evapori” 27. Nemmeno le distinzioni all’apparenza più evidenti dovranno resistere a questo processo: l’homo fluens non dovrà più avere punti d’appoggio, e l’unica metafisica nella quale gli sarà concesso di pascolare sarà quella del rispondere a comando, nelle maniere stabilite, agli impulsi che gli verranno di volta in volta sottoposti.
È allora un caso che la promozione di certe teorie provenga così volentieri dal luccicante mondo degli affari, della finanza, delle banche? Che il suo linguaggio sia il linguaggio del lavoro 28 ? Il capitalismo arcobaleno, lungi dall’essere un’aberrazione delle attuali rivendicazioni del movimento LGBTQ+, ne rappresenta invece il logico sviluppo e il pieno compimento: il nuovo liberalismo non sale sul carro dei vincitori. Esso è il carro dei vincitori.
L’autore di questo articolo ne è un caso lampante, essendo altresì, come leggiamo sul suo blog:
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Forse – oltre all’amore per la divulgazione della verità – c’è dell’altro in questi guru del tutto-scorre, in questi informatori super partes delle conquiste della medicina rigenerativa 29 con accordi di vassallaggio con le più grandi aziende benefattrici dell’umanità. Forse, distrutto l’uomo, la fabbrica dell’umano è già pronta ad aprire i battenti. Per consolare coloro che avranno ormai interamente delegato la definizione della loro identità al discorso dei militanti e degli “esperti”; per rimpiazzare definitivamente l’autonomia del vivente con gli interventi continui delle tecniche.
È sulla via della fluidità che consegneremo tutta la nostra esistenza – il nostro bios – ai lupi e agli sciacalli: rimossa la patina scientista, l’idea che il sesso sia uno spettro in cui non sono distinguibili categorie naturali non è altro che uno di quei topoi mentali in cui si riproduce il radicale disfacimento dell’individuo generato e sfruttato dalle forme contemporanee del liberismo… e chissà che ormai quasi transustanziato, questo stesso individuo si avvii a divenire quello spettro di cui tanto blatera:
Quel che definisce i dispositivi con cui abbiamo a che fare nella fase attuale del capitalismo è che essi non agiscono più tanto attraverso la produzione di un soggetto, quanto attraverso dei processi che possiamo chiamare di desoggettivazione. […] quel che avviene ora è che processi di soggettivazione e processi di desoggettivazione sembrano diventare reciprocamente indifferenti e non danno luogo alla ricomposizione di un nuovo soggetto, se non in forma larvata e, per così dire, spettrale 30
A coloro che anelano una ribellione perenne da ogni metafisica, mi sento di lanciare questo monito: una volta divenuti volatili come gas, fate attenzione a non ritrovarvi tappati dentro a una bottiglia.
Capito, geni della lampada?
NOTE
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Attenzione però a ravvisare in questa deriva una certa pulsione unitaria alla dissoluzione del pensiero, perché la clava del complottismo potrebbe essere brandita contro di voi… ↩
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Laddove non diversamente specificato le citazioni nel testo si riferiscono all’autore dell’articolo. ↩
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Potremmo a tutti gli effetti descrivere questo understanding come una sorta di afferramento fregiano. ↩
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Anche se, dopo aver “dimostrato” che anche il sesso coincide con uno spettro, ritorna sulla questione commentando lapidario: “If sex is a spectrum, then gender is unquestionably a spectrum”…una puntualizzazione che tradisce una certa insicurezza anche circa l’indubitabilità di questa seconda ipotesi. ↩
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Mi riferisco rispettivamente al Cyborg Manifesto (1991) e Gender trouble: feminism and the subversion of identity (1999), opere nelle quali le stesse categorie biologiche della sessualità umana vennero contestate in quanto “socialmente costruite”, ponendo le basi per la formulazione della teoria bimodale. ↩
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Praticamente un rovesciamento degli explicit delle vie dell’aquinate: « et haec clusters – nos, insipientes… – dicimus sexus ». ↩
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Si tratta tuttavia di un dato del tutto fuorviante, come mostrerò più avanti. ↩
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Georges Canguilhem, Le normal et le pathologique. 2013 (1943), p. 155. ↩
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Ibidem. ↩
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Non che siano mancati i tentativi di armonizzare le vecchie metafisiche alla teoria evoluzionista, come per esempio fece Asa Gray. La relazione fra creazionismo e darwinismo è estremamente complessa e sarebbe errato ridurla a un rapporto di mutua esclusione. ↩
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Notiamo al passaggio che il primo di questi doveri biologici consiste appunto nella capacità di trasmettere i propri caratteri da una generazione all’altra: quella fertilità quasi sempre compromessa dalle malattie che vedremo fra poco. ↩
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Si tratta di una percentuale indirettamente ripresa da Sexing the Body: Gender Politics and the Construction of Sexuality (2000), opera della studiosa (sarebbe meglio dire attivista) di genere Anne Fausto-Sterling, in cui la definizione di intersessualità venne arbitrariamente estesa per includere il più ampio numero di persone possibile. Subito rilanciata dalla stampa agli inizi degli anni duemila, essa è nel tempo divenuta un passe-partout dei militantiperidiritti. ↩
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Come puntualizzò lo psicologo e medico americano Leonard Sax in un paper indirizzato alla stessa Fausto-Sterling) ↩
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Soprassiedo sulle tante altre anomalie del corredo genetico affini (Sindrome di Jacobs, della Tripla X, ecc.) riportate dall’articolista in stile lista della spesa per tirare acqua al proprio mulino. ↩
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Nel caso della sindrome di Klinefelter, ipogonadismo e ginecomastia; per la sindrome di Turner, disordini o assenza del ciclo mestruale e scarso sviluppo delle mammelle. Sarebbe tuttavia errato credere che queste particolarità richiamino sempre le caratteristiche del sesso opposto: in alcuni casi queste ultime sono persino contraddette (nella sindrome di Turner, ad esempio, è presente statura più bassa della media femminile). In generale, l’aspetto fenotipico è del tutto singolare e specifico della malattia (sempre nella sindrome di Turner: collo corto con pterigio, un’attaccatura bassa delle orecchie; mentre in quella di Klinefelter una lunghezza insolita degli arti, soprattutto delle braccia). ↩
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Sia i maschi affetti da sindrome di Klinefelter che le donne affette da sindrome di Turner sono quasi sempre sterili (e in queste ultime la remota eventualità di una gravidanza presenta sempre un altissimo rischio di aborto spontaneo o di morte della madre). ↩
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La scarsa concentrazione di melanina associata ai capelli rossi può sia favorire la sintesi della vitamina D prevenendo la comparsa del rachitismo, che viceversa esporre a un maggior rischio di sviluppare cancro della pelle: è l’esposizione solare a stabilire quando il bilanciamento fra queste due caratteristiche si traduce in un vantaggio, e quando invece in uno svantaggio (Cf. Bodmer & Cavalli-Sforza, Genetics, evolution and man. 1976) ↩
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Questa discrepanza è riscontrabile in quei soggetti che, pur avendo un corredo cromosomico non alterato (46, XY o 46, XX), sviluppano alcuni caratteri sessuali del sesso opposto (o non sviluppano alcuni caratteri sessuali del proprio sesso) a causa di alterazioni geniche localizzate. Tali condizioni sono principalmente la disgenesia gonadica pura (o sindrome di Swyer), che colpisce individui con cariotipo maschile causando aspetto femminile e gonadi malformate (che, se non asportate, vanno spesso incontro a processi tumorali) e la Sindrome da insensibilità agli androgeni (o sindrome di Morris), in cui il feto – anch’esso cromosomicamente maschile – risultando insensibile agli ormoni maschili non è in grado di sviluppare i caratteri fenotipici del suo sesso cromosomico. Esiste poi l’iperplasia surrenale congenita, un disordine (talora così grave da risultare incompatibile con la vita) che può colpire soggetti con cariotipo sia maschile che femminile, e che in questi ultimi – a causa di una sovrapproduzione di ormoni androgeni – può causare virilizzazione in utero. Cf. Leonard Sax (2002), pp. 175-76. ↩
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Quando abbiamo visto che un disallineamento vero e proprio si produce soltanto in una ristrettissima minoranza della popolazione…a meno di non considerare una donna un po’ irsuta o un maschio tarchiato come persone intersessuali. ↩
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Una condizione peraltro rarissima in natura. ↩
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Al punto che “ancor oggi esistono tribù dove non ci si rende conto della relazione tra unione sessuale e gravidanza” (Emmanuel Anati, 1989). ↩
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La storia della bandiera arcobaleno coincide in larga parte con quella del movimento stesso, essendo stata adottata come suo simbolo fin dal 1978. ↩
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Che invece le etichette accumulano creando uno spazio composto da infiniti intervalli discreti. ↩
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Adsoqiation Dnghu, Proto-Indo-European Etymological Dictionary (2007), p. 2660, p. 2660). Dalla stessa radice provengono anche gli italiani “secare”, “segmento”, “setta”, e – soprattutto – il “segno” (tramite il protoitalico seknom, correlato al signum latino), ovvero il nome che si attribuisce a queste separazioni, senza le quali ogni linguaggio si ridurrebbe a un indistinto incomprensibile. ↩
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È chiaro infatti che, una volta distrutte le differenze intraspecifiche, si potrà con più facilità smantellare i confini che definiscono l’umano stesso, separandolo da ciò che umano non è. Abbiamo visto che una volta abbracciato il modello bimodale, può agevolmente distruggersi qualunque definizione dell’umano, fino ad esiti letteralmente mostruosi. ↩
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K. Marx & F. Engels, Manifesto del Partito Comunista (1848). ↩
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Ivi. ↩
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L’uomo malleabile si piega a qualunque compromesso con accondiscendenza e sobrietà: egli è anche flessibile… ↩
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La quale potrebbe presto avere un travolgente impatto sulle tecniche di fecondazione assistita. ↩
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Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo. Nottetempo, 2006. ↩