Un famoso avvocato del web ha recentemente pubblicato un video in cui vengono sciorinate, con la più grande disinvoltura del mondo, le leggi in forza delle quali la leva obbligatoria verrebbe ripristinata in caso di entrata in guerra dell’Italia al fianco dei suoi “alleati” atlantici. Sai com’è?
C’è tensione fra questo Paese e quell’altro […] già Crosetto è al lavoro per istituire una task force di riservisti, ma potrebbe non bastare…
…e insomma, si finisce a parlare di scenari da guerra globale e coscrizione per tutti i giovani maschi (niente quote rosa qui, pare).
E se ne discorre così, informali e distesi, come se si trattasse del tutorial per cucinare la torta al limone della nonna. D’altra parte, la marea quotidiana di demenza cui veniamo sottoposti (e alla quale ci sottoponiamo) serve precisamente a questo: a far in modo che le notizie più inaudite passino per i fatti più banali del mondo, rapidamente sottoposte a quel che resta della nostra attenzione fra scrolling e shorts infiniti, fra un video di teneri micetti e l’unboxing ASMR dell’ennesimo prodotto inutile.
Normalizzare l’ingiustificabile
Non mi interessa commentare questi scenari da un punto di vista geopolitico: mi viene in uggia ribadire qui gli infiniti motivi per cui una guerra sarebbe il risultato del servilismo, del doppiopesismo, dell’ipocrisia immonda di una classe “dirigente” ormai corrotta fino al midollo. Si tratta di cose quotidianamente denunciate da alcune piccole realtà giornalistiche (realtà che però – è doveroso osservarlo – tante volte s’illudono circa la natura salvifica degli ordini “contrapposti”).
Mi interesserebbe invece soffermarmi sui modi in cui ogni sorta di sapere dotato di una certa credibilità sociale possa essere convogliato allo scopo di contraffare la realtà. Diversi pensatori hanno già messo in evidenza come la medicina e la psicologia moderne abbiano finito per assolvere la funzione di veri e propri instrumenta regni: così, se la prima fornisce un quadro scientifico “obiettivo”, soggettivando il malessere sociale tramite la creazione di entità cliniche ad hoc, la seconda serve nel concreto ad adattare l’umano al paradigma stabilito, e a riparare gli individui nei quali tale malessere abbia ormai oltrepassato la soglia della sostenibilità.
Tali considerazioni, tuttavia, possono estendersi ad altre discipline e ad altre specie di dottori: ad esempio, a tutti quei “filosofi” impegnati ad esaltare un’epoca di conformismo intellettuale come il migliore dei mondi possibili, e a indorare la sofferenza esistenziale prodotta dalla condizione moderna attraverso l’articolazione di una mitologia del progresso; o ancora a quei giuristi che – al momento opportuno – si affaccendano per rammentarci che non possiamo sempre starcene là ad accampare diritti (meno quelli immaginari, s’intende). Dobbiamo altresì assolvere i sacri doveri civici che “gli altri” adesso ci esigono – questi tutti con cui si vuol piegare chiunque! – nelle loro molteplici forme: la collettività, la Patria, l’Europa democratica.
Una neutralità solo apparente
Sia chiaro: questo articolo non vuol essere un’invettiva contro questo signore, uno fra i tanti che sguazzano all’occorrenza nel torbido universo delle notizie. Lo scopo di queste osservazioni non è insinuare la malafede di chicchessia, quanto appunto constatare come ognuno possa rendersi complice per la semplice disponibilità a cavalcare l’onda del momento: pur di produrre il proprio “contenuto”, si è disposti allora a normalizzare qualsiasi notizia, divenendo così strumenti inconsapevoli del discorso dominante. Questo è, in buona sostanza, il messaggio che video del genere fanno passare. E così - pur facendo trapelare (o simulando) qua e là una posizione debolmente critica – siamo portati a credere che alla fine della fiera ci dovrem(m)o rassegnare al nostro destino, perché anche se tutto appare contestabile, così stanno le cose. “Questa è la legge”, si chiosa come d’abitudine.
Così si giustifica qualunque interpretazione delle norme, finanche quelle che paiono stravolgerne irrimediabilmente il senso: d’altra parte, l’esperienza recente ci insegna che le garanzie formali degli Stati di diritto non costituiscono un valido ostacolo ai soprusi dei potenti: perché brigare per abolire o mutare le leggi, quando è possibile aberrarle a piacimento senza incontrare alcuna resistenza?
Introdurre implicitamente un’eventualità (“se l’Italia va in guerra”, recita il titolo, con buona pace del periodo ipotetico) snocciolandone tutte le “ineluttabili” conseguenze, è il primo modo per far passare scenari inimmaginabili come tutto sommato possibili. Una volta rese avvezze le masse a questo primo passaggio, sarà più facile poi forzare il passo decisivo: quello dal reame delle cose prospettate a quello delle cose fatte. Riportare un’assurdità come un’ipotesi fra le tante è già dunque, dietro la parvenza di una neutralità sopra le parti, mistificare la realtà. Chi rappresenta inoltre uno youtuber per ricordarci qual è “la domanda che tutti (sic!) ci stiamo ponendo”? Posso testimoniare, nel mio piccolo, che il quesito che un video del genere suscita in me non è certo chi verrebbe chiamato alle armi, quanto piuttosto: com’è anche solo possibile ritrovarci qua a sproloquiare di coscrizione e guerra globale?
Così allo stesso modo in tanti altri passaggi, all’apparenza oggettivi e consequenziali, si pongono quesiti che coincidono già con un’interpretazione parziale della realtà. La questione della difesa della patria, ad esempio, è immediatamente posta come un tutt’uno, nei termini cioè dell’allargamento della nozione di difesa dal territorio nazionale a quello di tutti i Paesi alleati (e delle loro basi militari): una questione certamente rilevante, che richiederebbe di mettere in discussione (eresia!) l’alleanza atlantica fin nei suoi presupposti costitutivi (il famoso art. 5 della carta…).
Il problema principale però, di cui il sopraesposto non resta che un corollario, risiede piuttosto nell’interpretazione capziosa del concetto stesso di difesa, poi prontamente richiamato citando l’art.52 della nostra costituzione (ecco serviti i sacri doveri!). Eppure, parafrasando Woody Allen, è sotto gli occhi di tutti che saremmo chiamati a “difenderci” poiché: “quelli là ci hanno dato un colpo di mento sul pugno, mentre quegli altri ci hanno tirato una nasata sul ginocchio”. Si tratta dunque di un giochino di rapide zoomate, che consiste nel far passare il dettaglio per la questione principale, di modo che chi non mantenga un’attitudine guardinga scambi facilmente un primo piano per una figura intera.
Ancora, si omette di considerare che l’art. 11 cost. non proclama soltanto il ripudio della guerra intesa come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli – da cui appunto il concetto complementare di guerra difensiva – ma precisa altresì che la guerra è rigettata “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, quale sarebbe appunto il caso. Assistiamo insomma – come fu in altri tempi per l’art. 32 cost., sovente amputato della sua importante postilla finale – ad un taglia e cuci tutt’altro che imparziale.
È singolare osservare poi come la nozione di Patria – in un’epoca in cui lo Stato-Nazione è ridotto a una carcassa accerchiata da avvoltoi – sia tirata in ballo unicamente quando si tratta di tenerci sul balcone a cantare l’inno di Mameli (sia mai tenga i virus lontani dagli infissi?), o per convincerci dell’opportunità di essere impiegati come carne da cannone. Insomma, davvero buffo come le vestigia di un orgoglio nazionalistico possano essere riciclate per soggiogare le masse all’imperio di un’élite che non conosce confini di sorta; per il resto, gli interessi della nostra comunità nazionale (come di qualunque altra comunità reale) sono anno dopo anno svenduti al miglior offerente (da governi di “destra” come di “sinistra”):
Attendi. Italia, attendi. Io veggio, o parmi,\ un fluttuar di fanti e di cavalli,\
e fumo e polve, e luccicar di spade
come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
l’itala gioventude? O numi, o numi!
pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
non per li patrii lidi e per la pia
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui,
per altra gente, e non può dir morendo:
— Alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo. —\
(Giacomo Leopardi, Canti, All’Italia, 1818)
Non collaborare altrimenti
Video del genere si inseriscono in una tendenza più ampia da parte della stampa anglosassone ed europea a dare martellante risalto alle esortazioni alla “solidarietà nazionale” che cominciano a provenire dagli alti comandi degli eserciti. Dinanzi a queste sirene, la risposta non può che essere solo una, o meglio: alcuna.
Agitarsi sarebbe già accettare. Non diamo adito a “possibilità” talmente abiette da non poter far l’oggetto di qualsivoglia dibattito pubblico. In tempi brutali ci è richiesta fermezza di spirito, ovvero in primo luogo la capacità di dimorare nelle nostre esistenze, senza farci attanagliare giorno dopo giorno da discorsi di morte o da un angoscioso fatalismo.
Eh, ma dopo averti processato penalmente per reato di diserzione, ti ci spediranno comunque al fronte!
Soggiunge amareggiato ma sornione il buon azzeccagarbugli 2.0. E quale autorità, di grazia, potrebbe mai spedire in guerra decine o centinaia di migliaia di giovani contro la loro volontà, come si trattasse di pacchi postali? Nessuno può nulla su di te, senza la tua attiva collaborazione: come le storie di vampiri ci insegnano, è sempre la vittima a invitare il carnefice in casa propria. E dunque:
“Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?” (Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, La città futura, 1917)
Ma il male, oggi ancor più che allora, non si consuma nella mera passività, quanto piuttosto in un’associazione inconsapevole ai giochi e alle parole dei potenti. La nostra assenza è la partecipazione implicita al discorso dominante, la nostra indifferenza un’attenzione mal rivolta. È nell’astensione dal fare e dal dire ciò che si vorrebbe fosse detto e fatto che dobbiamo adesso esprimere il nostro diniego. Che al fronte comincino ad andare i tanti content creator disposti a discettare di tutto per un like; che ci precedano gli ideologhi della Von der Lyen e i giardinieri di Borrell (che sia la volta buona che riescano per davvero a far spuntare qualche fiore di campo?). La collaborazione può essere solo il risultato di un agire insieme, e mai il compimento di un destino irrevocabile: questa è vera obiezione di coscienza.
Riassumendo: qualsiasi autorità è tale solo in forza di quel potere mistico che gli viene di volta in volta accordato dal consesso degli uomini – uomini dai quali, d’altra parte, ogni legge proviene. Se poi finiremo con l’accettare, un pezzettino alla volta, la catastrofe come un male inevitabile, allora sì che per crederla tale la renderemo inesorabile, come in una profezia autoavverante.
Questa è la legge. Il resto son fandonie.